Vitali Pierina Maria #BellaCiao

La Piera

Dal finestrino del torpedone Piera guarda sfrecciare nella notte la pianura lombarda.

Ha i capelli castani, così chiari che sotto i raggi del sole mandano dei raggi biondi, e due occhi azzurri e stupiti che scrutano quell’orizzonte che si fa nuovo ma mano che ci si allontana da Milano. La si potrebbe scambiare per una bella ragazza di ventun anni che parte per un viaggio, per amore o per lavoro poco importa, per assaggiare la sua giovinezza e quel mondo tormentato che, nel 1944, non era poi così grande; invece se la si fosse guardata meglio si sarebbe notata la borsa logora al collo, la vestaglia del carcere che le arrivava alle ginocchia e forse negli occhi un osservatore attento avrebbe potuto intuire dei lampi di coraggio e l’ingenuità di quei ventun anni, compiuti pochi giorni prima a San Vittore.

In prigione ci era finita una manciata di settimane dopo la strage di piazzale Loreto dove, il 10 agosto 1944, quindici partigiani prelevati dal carcere erano stati assassinati dai militari dell’ RSI e i loro cadaveri esposti al pubblico. Nelle celle di San Vittore erano rinchiusi tanti compagni di lotta. Piera era tra le ragazze più giovani laggiù quindi, in molti, l’avevano presa a cuore: come la dottoressa Bovelli, la direttrice del sanatorio, che riusciva sempre a trovare il modo di farle arrivare un poco di cibo in più, o le mogli dei partigiani, che venivano arrestate e trattenute per alcune settimane, per far da esca sperando che i mariti si costituissero, che la trattavano come una figlia a cui badare.

Dal canto suo Piera cercava di aiutare le donne in difficoltà che incontrava quotidianamente; ad una compagna di cella che doveva essere deportata in un campo di concentramento aveva donato tutti i suoi indumenti di lana; per questo ora, sul torpedone, nella sua borsa custodiva solo un asciugamano.

Anni dopo Piera si sarebbe ricordata del carcere come un posto in cui ci si voleva bene e, anzi, si stava quasi bene. Quando l’avevano portata lì ancora non lo sapeva; non sapeva che si sarebbe ritrovata circondata dall’affetto dei suoi compagni.

L’avevano presa a novembre. Era ricercata dappertutto come “la biondina della Val Taleggio”, dipinta come una pericolosa brigantessa e lei, che a diciannove anni già sapeva molto della guerra, per fascisti e nazisti era pericolosa davvero.

Il perché quella ragazzetta mingherlina fosse diventata una pericolosa latitante è presto detto: le era stata assegnata la missione di catturare Dick, un ufficiale della Gestapo, e lei lo aveva fatto. La casa di Dick, a Sant’Omobono, era una grande villa dirimpetto alla caserma delle Brigate Nere. Come fare?

Il piano era pittoresco quanto geniale: Piera si sarebbe travestita da contadina e, con la scusa di dover consegnare delle formaggelle, sarebbe entrata in casa e avrebbe disarmato Dick. Il giorno del sequestro le tremavano le mani e gli occhi andavano in continuazione a controllare la pistola, nascosta nella cesta piena di formaggi; con il fiato corto bussò alla porta della grande casa e tutte le paure e le incertezze che le affollavano la testa sparirono non appena vide apparire sull’uscio una divisa SS linda e stirata che aveva al suo interno l’uomo che aveva fatto deportare tanti e tanti abitanti della valle Imagna.

Una volta catturato Dick lei e i suoi compagni avevano concluso uno scambio riuscendo a liberare alcuni degli arrestati durante un rastrellamento.

Piera era così orgogliosa di essere riuscita, sola, nella missione, e ne parlava ridendo con gli amici sulle montagne. Aveva capito di essere una donna forte, piena di sangue freddo e determinazione, e ne era fiera.

Maria Pierina Vitali (La Piera-partigiana)

Poi era stata arrestata.

A Primaluna, in Val Sassina, da tempo si temeva un rastrellamento e a Piera era stata affidata la moglie di un comandante partigiano con l’ordine di portarla in salvo.

Mentre scendevano a valle, lungo la strada un posto di blocco. Piera non aveva documenti: era ricercata ovunque e l’ultima cosa che voleva era farsi riconoscere. Subito venne portata alla caserma, mentre tentava di stracciare, distruggere e far sparire per sempre la lettera di presentazione che avrebbe dovuto fornire alla brigata partigiana da cui si stava dirigendo. I tentativi furono vani, Piera venne identificata proprio come quella biondina che da giorni i nazifascisti cercavano in ogni paese dalla Val Taleggio alla Val Sassina.

Poi era stata torturata.

Con la schiena contro il muro i fascisti si divertivano a fare a gara a chi le sparava più vicino, mentre lei cercava di non muoversi e di non piangere. Volevano sapere i piani della brigata a cui lei apparteneva, l’86a Garibaldi, ma tutto quello che Piera  sapeva lo aveva nascosto in un angolino del cuore dove non si poteva arrivare né con gli spari né con gli schiaffi, e nessun insulto o minaccia, nemmeno il peggiore, potevano sbrogliare quel nodo alla gola che le faceva tenere ben strette le parole preziose dette con i compagni qualche giorno prima.

Le belve fasciste si erano stancate delle torture prima che lei cedesse.

Dopo c’era stato il carcere di Monza, e poi San Vittore, e alla fine questo torpedone che la stava portando verso un campo di internamento, circondata da facce rassegnate e assenti. Gli occhi di Piera incrociano lo sguardo dell’uomo alto seduto di fronte a lei: sono occhi vispi e attenti, scattano da una parte all’altra del pullman, instancabili.

Lei sorride mentre il lago di Garda fuori da finestrino le riempie gli occhi di azzurro.

L’uomo alto si guarda attorno, poi solo un fragore di vetri e nell’arco di pochi secondi lui e altre due persone sono sparite lanciandosi dal finestrino. Piera guarda quel varco verso la strada, non pensa nemmeno e si butta:

non è ancora venuto il momento di rinunciare alla libertà.

(di Elisa Iscandri)

La seconda partigiana che vi ho presentato, sempre con un racconto di Elisa Iscandri, è una donna con un’energia devastante, nonostante la sua non più tenera età. Ho conosciuto la Piera a casa sua in un soleggiato pomeriggio primaverile. Il sole che entrava dalla finestra le illuminava il viso e faceva splendere la sua invidiabile bellezza. La sua testimonianza rende merito a tutte le donne che parteciparono alla lotta per la liberazione dalla tirannia nazifascista. Furono molte e il loro coraggio e la loro determinazione diedero un contributo fondamentale alla vittoria partigiana.
La sua biografia è ancora una volta di Tarcisio Bottani; scrittore, giornalista e amico personale di Piera.

PIERA VITALI “LA BIONDINA DELLA VAL TALEGGIO”
Nata in una minuscola contrada della Val Taleggio, Piera Vitali si avvicinò all’86.ma brigata Garibaldi “Issel” operante in Valle seguendo il fratello Vitalino che della brigata era commissario politico.
Coraggiosa, e forse inconsapevole dei rischi che correva, si prestò a fare la staffetta, tenendo i collegamenti con i vari nuclei della brigata e con i partigiani della Valsassina.
L’operazione che l’ha resa famosa per l’audacia che la caratterizzò, fu la cattura di un grosso esponente della Gestapo di stanza a Monza, il colonnello Dick, condotta a termine l’8 ottobre 1944 grazie al determinante contributo della Piera.
Il movimento partigiano aveva deciso di catturare Dick perché, dirigente di uno stabilimento, aveva inviato molto spesso in Germania manodopera considerata a lui inservibile, inoltre i comandanti della “Issel” ritenevano di potersene servire per lo scambio con prigionieri partigiani in mano ai nazifascisti. Dick abitava a Sant’Omobono Imagna, in una villa posta di fronte alla caserma della Brigata Nera e per questo era difficile sequestrarlo. La sua cattura fu possibile grazie allo stratagemma della Piera che entrò armata nella sua casa, fingendo di essere una contadina che gli portava delle forme di taleggio, e riuscì ad arrestarlo, consegnandolo poi ai compagni.
Effettivamente Dick, una volta nelle mani della brigata, divenne preziosa merce di scambio con alcuni partigiani catturati dai nazifascisti durante il rastrellamento del12 ottobre. Liberato grazie allo scambio, Dick tornò al suo lavoro a Monza.
La Piera subirà invece le conseguenze della sua audace azione: attivamente ricercata come la “biondina della Val Taleggio” venne arrestata all’inizio di novembre durante una missione a Introbio. Verrà riconosciuta proprio da Dick come responsabile del suo sequestro e imprigionata.
Dopo un periodo di dura detenzione nelle carceri di Monza e di San Vittore, fu inviata in un campo di concentramento tedesco, ma durante il viaggio ebbe modo di dimostrare ancora una volta il suo coraggio: nei pressi di Malcesine il pullman che la stava trasportando in Germania ebbe un incidente e la Piera, assieme ad alcuni compagni riuscì fortunosamente a scappare e a tornare a Bergamo, da dove poi raggiunse la sua Valle per riprendere la lotta partigiana.

Ettore Daneri #BellaCiao

Quando i fascisti entrarono in casa mio padre aveva già preparato la valigia. Le dita sottili avevano sfiorato il violino mentre le lacrime di mia madre bagnavano la sua camicia. I repubblichini frugarono ovunque nella casa, ribaltarono i materassi, aprirono i cassetti e, alla fine, lo portarono via. Non trovarono quello che cercavano perchè non si trovava lì. Quello che i fascisti di Salò volevano stava ormai dall’altra parte della frontiera, in Svizzera. Quello che cercavano eravamo noi.

Io e mio fratello Luciano avevamo viaggiato molto con i nostri genitori perchè mio padre era stato violinista in molte orchestre, soprattutto in Svizzera, ed eravamo tornati in Italia solo nel 1940, quando io avevo vent’anni e mio fratello ventidue. I nostri genitori ci amavano molto e, nonostante i tempi, a casa nostra si stava piuttosto bene. Poi l’armistizio e la Repubblica sociale, con le sue belve affamate che reclutavano con la forza i giovani strappandoli dalle cascine e dagli appartamenti.

Nel nome dell’amore che nostro padre provava per noi ci fece fuggire; ancora oggi non so come riuscì ad organizzare quel viaggio. Da Bergamo andammo a Como, poi in taxi fino al confine elvetico dove, con i contrabbandieri, raggiungemmo Campione d’Italia, enclave italiana in Svizzera. Qui trovammo finalmente rifugio a casa di alcuni vecchi amici.

Ma mio padre e mia madre non partirono, restarono lì, a Bergamo, e mio padre finì in prigione. Non lo posso immaginare lui, Tullio Daneri, nella cella di una prigione. Strideva nella mia mente l’immagine di quell’uomo elegante, in abito nero, con il suo violino stretto nella mano sinistra, con l’idea che avevo delle galere fasciste, squallide e cupe, con le torture atroci di cui tutti parlavano, con l’idea di brutalità e vendetta che il fascio si portava ormai appresso.

Nel frattempo ci rendemmo conto che a Campione nulla era cambiato da prima della guerra: niente armi, niente soldati e niente coprifuoco. Le persone vivevano cercando di non preoccuparsi, ripetendosi che tutta quella tempesta che sconvolgeva il mondo al di là dei confini svizzeri sarebbe passata. L’attesa era diventata una parte imprescindibile del modo di vivere lassù, il tempo sembrava immutabile, una cappa grigia di polvere e cemento che soffocava le ambizioni. Per noi, lontani da casa e a corto di notizie, una tortura insopportabile. Quando venimmo a sapere che, a Lugano, all’ambasciata americana tentavano di costituire una formazione di resistenza composta da rifugiati sbandati come noi, non avemmo dubbi. Avremmo avuto vitto e alloggio garantito, per quanto il cibo fosse scarso e i letti scomodi, ma soprattutto avremmo avuto una parte attiva in quello che succedeva, magari saremmo tornati a casa prima.

Ettore Daneri @andrea::tognoli
Ettore Daneri @andrea::tognoli

Nell’ottobre 1944 venimmo spediti in Val d’Ossola: niente più attesa, Bergamo era più vicina che mai, questo pensavo mentre la nostra barca salpava da Campione e ci portava a Lugano. Mi pareva di vedere già il tavolo della cucina, e mia madre che vi posava sopra l’arrosto della domenica mentre mio padre stava seduto e tagliava per noi le prime fette. Da Lugano la seconda tappa era Locarno, da lì ci aspettava Domodossola ma, durante l’ultima parte del tragitto, la polizia svizzera ci fermò: non avevamo armi ma nemmeno documenti. Allora la prigione, anche se per poco, per noi e gli altri. Chiedemmo di poter tornare a Campione, chè la sfortuna ce la sentivamo già addosso prima ancora di finire in guerra. Invece l’ intervento dell’ ambasciata americana obbligò la polizia a rimpatriarci.

Ed eccoci in Val d’Ossola. Venimmo destinati ad una brigata a caso, tra le tante:  c’eran la brigata Garibaldi, la Matteotti, Val Torcia… gli uomini stavano ammucchiati nel grande campo, comunisti accanto ai cattolici, e l’attesa che si respirava non era più quella immobile e oziosa di Campione. Era un’attesa scheggiata dal nervosismo, ogni tanto increspata di terrore. Non c’erano molte armi; noi avevamo un fucile novantuno in due, io e Lucio. Era una mancanza spaventosa, ma gli americani temevano una rivolta delle brigate comuniste, perciò non davano armi né munizioni. Portavamo avanti azioni di guerriglia: alcune brigate con precisione e progettualità, altre, come la nostra, in maniera confusa e alle volte dispersiva.

A metà ottobre nazisti e fascisti scatenarono la controffensiva. Spazzarono via il campo. Allo sbando, dopo il primo scontro, tentammo di tornare in Svizzera, mentre i garibaldini abbandonavano il campo per tornare alla guerriglia montana. Io e mio fratello tentammo di tornare a Campione, ma quando la polizia svizzera ci prese capimmo che ci sarebbe spettato il campo di concentramento. Una notte tentammo la fuga, e fummo fortunati; volevamo tornare a Campione e grazie a un’associazione per l’accoglienza dei rifugiati di Mendrisio riuscimmo nell’intento. Di nuovo ci toccò l’attesa, che da quel momento fu per noi meglio della guerra, ma sol per cinque mesi; poi il 25 aprile e infine il ritorno.

Poi gli occhi di nostro padre, ancora, finalmente. Nostro padre che ci aveva organizzato la fuga da solo, pur di non farci diventare carne da mecello fascista; nostro padre che per noi si era fatto la prigione per amore e per il legame di quel sangue che ci legava da sempre. E quando lo rividi provai gratitudine, e ancora oggi sento quel debito forte con lui, che se dalla guerra non ho imparato molto, perchè molto non ho fatto, da lui ho imparato come si ama.

di Elisa Iscandri

Mario Pesenti #BellaCiao

4 ottobre 1944, ore 19.00, Zambla Alta, Interno di una stalla.

La brigata è più chiassosa del solito; uomini con le facce sporche si sfregano le mani cercando un po’ di sollievo a da freddo autunnale che intorpidisce le dita delle mani e quelle dei piedi, mal protette dagli stivali logori. Tre carabinieri stanno seduti sopra la paglia e con loro c’è anche Franco Locatelli; lì accanto il capo brigata Damì e il suo secondo discutono animatamente: Radio Londra ha avvisato che sarebbe stato effettuato un lancio proprio nei pressi della Zambla Alta, si deve stare pronti.

Sopra una stufa sta bollendo un minestrone raffazzonato: qualche patata, cipolle, cavolo, e tutto quel che si era riusciti a farsi donare dalla gente di montagna. Dietro il pentolone, mestolo in mano e sguardo vispo, Mario.

Nella stalla l’eccitazione per il lancio è molta, non si sa di preciso cosa verrà recapitato: armi e munizioni sicuramente, e anche soldi falsi della repubblica di Salò; magari qualche agente segreto americano con preziosi documenti. Alcuni sbandati si erano da poco uniti alla brigata, uno stava in disparte, i capelli chiari e una camicia blu; Mario non lo aveva mai sentito dire il suo nome; lo guarda bene in faccia mentre gli porge una scodella di minestra ma nei suoi occhi non trova nulla, nemmeno un guizzo gelido che potesse risvegliare in lui il sospetto.

Anni dopo, ormai anziano, Mario si chiederà ancora come sia stato possibile che nessuno si sia accorto di nulla, che nessuno avesse percepito che qualcosa stava per accadere. Ma allora si parlava solo dei soldi repubblichini, dei fucili nuovi e funzionanti, delle vendette promesse da tempo ai fascisti di paese.

Le scodelle vengono svuotate, il poco vino che era stato donato da un contadino vicino finito, le chiacchiere riempiono ogni spazio vuoto.

4 ottobre 1944, spazio aereo da qualche parte nel centro Italia, ore 19.45

Charles Sloan scruta il cielo da sopra nuvole grigie, la visibilità è poca ma lui e il suo copilota John hanno già avuto altre esperienze di lanci in situazioni critiche e, anche stavolta, conducono tranquilli il B24 attraverso il nero cupo punteggiato di stelle. Sull’aereo con loro ci sono altre undici persone: militari, operatori radio, ingegneri. Sono tutti americani.

A Brindisi, poco prima della partenza, sul velivolo erano state caricate una quantità enorme di casse, piene di tutto ciò che occorreva per ridare linfa alla lotta partigiana nelle valli bergamasche. L’equipaggio quelle valli non le aveva viste mai, se non sulle mappe che i loro superiori gli avevano mostrato. Erano in Italia da qualche mese ma non è che avessero fatto i turisti, più che altro Charles si era limitato a pilotare e, ogni tanto, ubriacarsi in libera uscita o passare la notte con qualche prostituta dalla pelle bruna.

Mentre le nubi si diradavano Charles Sloan si ritrovò a pensare a quanto era diverso il panorama che si godeva da lassù rispetto a quello che era abituato a vedere quando solcava il cielo assolato del Texas, con le sue vaste pianure così rassicuranti e quel muoversi di mandrie disordinato e le case con i tetti lindi dei quartieri ricchi, e quelli di assi di legno marcio delle città dei negri.

Là, in quella parte d’Italia sconosciuta, solo boschi e cime di montagne grigie; solo cascine con tetti di selce e chiese e qualche fuoco acceso dai partigiani per segnalare le posizioni.

All’altezza della Val Brembana i fuochi si fecero più frequenti, era il posto designato per il lancio. Charles decise di virare e cercare un punto in cui la visuale permettesse il lancio in sicurezza, un posto dove il vento ghiacciato e le nubi cariche di pioggia dessero tregua al velivolo già troppo pesante.

4 ottobre 1944, Zambla Alta, interno di stalla, ore 20.00

Mario e Basilio parlano del bombardamento alla Dalmine.

L’attesa di quell’aereo americano aveva riportato alla loro mente l’esplosione della fabbrica, il sangue e l’odore della carne bruciata dei centosettantotto morti ammazzati dalle bombe alleate il 6 luglio 1944. Operai, impiegati e sette bambini che con loro madre stavano tranquilli nella loro casa a ridosso della fabbrica: era l’operazione 614.

La Dalmine era da tempo considerata dagli americani un obiettivo sensibile poiché, finita sotto il controllo tedesco, riforniva i nazifascisti.

Accanto a Basilio il ragazzo schivo e senza nome fissava il vuoto senza parlare, finché uno dei due carabinieri non gli offrì del tabacco. Il ragazzo ringraziò e, mentre si arrotolava una sigaretta, si voltò verso Mario e ascoltò la sua storia.

Il sei agosto Mario a lavorare non c’era andato, aveva sentito da lontano lo scoppio e, una volta capito cosa fosse successo, era partito quasi subito per i monti, ché se non hai un lavoro i nazifascisti ti deportano sicuro. Così con fatica, eludendo i posti di blocco, era arrivato prima a San Giovanni Bianco e poi in Zambla Alta, dove si era unito ai superstiti della brigata trucidata in Val Taleggio.

A un tratto, senza preavviso, il ragazzo che pareva muto infila la mano nella fondina del carabiniere ed estrae la pistola.

Un secondo che dura ore.

A bruciapelo spara un colpo.

La faccia di Basilio sparisce e sangue, carne e ossa esplodono in ogni direzione sporcando le camicie logore di chi gli sta intorno.

Basilio cade schiena a terra, una pozza rossa si allarga sempre più sotto la sua testa impregnando la paglia e la terra.

Mario guarda e non grida, non piange. Sta fermo e nei suoi occhi raccoglie l’immagine di quei millesimi di secondo che, dopo anni, ormai vecchio, gli riempiranno ancora la bocca e la testa di dubbi, gli ricorderanno cosa è la maledizione di vivere sapendo che non si potrà mai conoscere il motivo dei gesti umani.

4 ottobre 1944, cielo della Val Brembana, Ore 21.15

Charles Sloan sta virando da troppo tempo tra nuvoloni e cime. John Wilson accanto a lui controlla gli strumenti di navigazione, possono tentare comunque il lancio senza troppi rischi: lì vicino c’è un monte, il Menna, e le sue pendici paiono il posto più sicuro. Decidono di tentare.

4 ottobre 1944, Clenesse, Bergamo, ore 21.25

Il parroco arranca sul sentiero che attraversa i boschi, con lui c’è anche il sacrestano. L’aria è gelida e anche gli uccelli notturni tacciono, spaventati dal rombare dei motori di un aereo che da qualche minuto sorvola la valle.

Solo qualche lepre di tanto in tanto gli taglia la strada, confusa dal freddo e dal rumore.

D’un tratto ecco apparire un capannello di persone; un paio impugnano delle pale, uno ha un piccone. Se ne stanno fermi in cerchio e tutti guardano verso terra.

“Così non va, si sta facendo tardi e noi non siamo alla nostra postazione!”

“è vero, ma mica lo possiamo lasciare qua così, in pasto agli animali, sto povero cristo!”

“Ma che povero cristo! Questo è un assassino! Si è meritato ogni proiettile che gli abbiamo messo in corpo!”

“Sarà come sarà, ma se non torniamo subito al nostro posto rischiamo di perderci il lancio!”

Il parroco si avvicina, fende il capannello e si ritrova davanti un mucchietto di terra scura e ghiacciata, ma troppo poca e troppo compatta per riuscire a nascondere il corpo di un ragazzo dai capelli chiari e con la camicia blu.

“Finalmente! Stavamo aspettando da tanto!”

Il parroco diede l’estrema unzione al cadavere, per quanto potesse servire, come gesto di carità.

Mario sapeva cosa sarebbe successo ora: il prete, il sacrestano e un uomo della brigata avrebbero portato via il corpo, impossibile da nascondere alla vista con la poca terra che si riusciva a scavare lì, e l’avrebbero seppellito nel cimitero di Clenesse, sotto qualche vecchia lapide dimenticata da tutti.

Ma a Mario non importava nulla di quello, lui riusciva solo a pensare a Basilio che, per lui, era stato un maestro e un padre in quei mesi di freddo e guerra. Riusciva solo a pensare al viso mutilato, con gli occhi aperti fissi sul soffitto della stalla, una corona vermiglia di sangue rappreso a decretarne la santificazione.

E mentre l’ultimo ricordo di Basilio si faceva nitido ecco lo scoppio: enorme, raccapricciante e devastante. Lingue di fuoco solcarono il cielo. A Mario pareva uno scoppio ancora più forte di quello di Dalmine.

I partigiani si guardano, pensano subito al lancio.

Primavera 1947, pendici del monte Menna, Bergamo

Una fila di muli porta sul dorso sacchi pieni di morti, appena cavati da una fossa comune sul monte.

A guidare la spedizione sono alcuni soldati americani, la loro missione è riportare i corpi dei morti durante lo schianto del B24 alleato sul monte Menna del 4 ottobre 1944; verranno sepolti in un cimitero militare in Missouri.

Dell’aereo non rimase nulla; gli abitanti della valle razziarono tutto ciò che si poté, dal contenuto delle casse alle parti metalliche dell’apparecchio stesso. Di quel che si salvò dalle fiamme quasi nulla restò ai partigiani.

Mario Pesenti @andrea::tognoli
Mario Pesenti
@andrea::tognoli

Ottobre 2016, Residenza anni azzurri, Bergamo

“Mario, ma chi era poi il ragazzo che ha ammazzato Basilio? L’hai più scoperto?”

“Non so, era con noi, era lì. Era con noi, non lo so… anche i tre carabinieri poi sono spariti, presi dai tedeschi e dai fascisti.”

“E poi? “

“Poi son successe tante cose, dopo il lancio. Lui ha ucciso Basilio, che era una persona perbene… era uno bravo, l’aiutante del prete. Ha colpito lì e colpendo lui ha disfatto la brigata, perché un po’ di noi hanno portato il morto su nella pineta della Zambla Alta, avvolto in un lenzuolo, per farlo sparire. So solo che era un milanese, ma il nome non lo so; se l’è tenuto per bene per lui.”

Mario mi guarda e nei suoi occhi rivedo, come fosse un film, tutta la sua storia, lucida di tempo e di pensieri.

Mario mi guarda e sento che sono fortunata ad ascoltarlo qui, ora e adesso, perché è la prima volta che qualcuno mi parla della guerra spogliata d’idealismo e retorica.

Nella storia di Mario c’è solo la vita, ci sono solo momenti, c’è solo il flusso degli eventi che ti fa stare, come diceva Fuì, da una parte sola, perché non esiste nessun’altra parte in cui stare quando le cose accadono.

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